(a cura di Fiore Di Feo) – Il calcio è lo sport più popolare del mondo, forse. Sicuramente, però, è lo sport più populista del mondo. Con il Mondiale appena concluso in Qatar si è raggiunto l’apice di un processo partito già qualche edizione fa. A partire dal 2010 in Sud Africa il calcio ha assunto, in maniera esponenzialmente più marcata rispetto al passato, il ruolo di Vangelo globalizzatore. Rileggendo le conclusioni e i giudizi finali che hanno stabilito l’assegnazione della competizione, è possibile trovare come principale motivazione l’opportunità di sviluppo delle zone interessate o la possibilità delle stesse di potersi far apprezzare e conoscere meglio dal mondo esterno.
Sono innumerevoli gli esempi che confermano come gli anni Duemila siano l’epoca in cui l’organizzazione di un evento sportivo di scala mondiale non rappresenti un volano per l’economia nazionale del paese a cui viene assegnato. L’edizione vinta dalla Spagna, con vuvuzela in sottofondo, insieme a quella del Mineirazo realizzato dalla Germania, sono state occasioni in cui le valutazioni della politica sportiva, nella scelta della candidatura migliore, si sono legate all’opportunità di crescita (poi disattesa) delle economie emergenti di questi paesi.
Le competizioni di Russia 2018 e quella appena conclusa in Qatar hanno sostanzialmente ribaltato la gestione del processo di assegnazione, mostrando come realtà, più o meno democratiche ma di evidente dominanza economica e geopolitica, abbiano ben capito come lo sport, e il calcio di oggi nello specifico, siano ottimo strumento per raggiungere il riconoscimento definitivo da parte della comunità internazionale.
Il Mondiale in Qatar è stata un’occasione persa, sotto tantissimi punti di vista, sportivi ma soprattutto non sportivi. Le premesse non davano molte speranze. Nel mese intercorso dal fischio d’inizio della partita inaugurale fino, addirittura, a pochi istanti prima che Messi alzasse la coppa verso Diego, la realtà troppo spesso ha superato la fantasia più ardita.
Le parole di Infantino, durante la conferenza stampa di fine competizione, producono più di un brivido di timore riguardo la visione e la gestione futura che i poteri forti hanno del gioco del pallone. Dichiarare che questo sia stato il più bel Mondiale di sempre è un disco rotto che si incanta sul grammofono di ogni presidente Fifa. Havelange prima e Blatter poi avevano già, a loro tempo, fatte proprie le parole ascoltate dal pulpito su cui ora è salito a predicare il buon pastore Gianni.
Le osservazioni che possono essere fatte al torneo qatariota, in termini organizzativi, includono uno “spettro” di elementi molto eterogeneo e tutti, scherzi della lingua italiana, alquanto lugubri. Un evento globale di questa portata non può avere valenza sociale parziale o di comodo. Quando Infantino dice che i messaggi politici devono stare fuori dal calcio si contraddice clamorosamente. Le campagne di FIFA e UEFA che vengono trasmesse a ritmo costante tramite tutti i canali di comunicazione, utilizzando testimonial d’eccezione, insieme al simbolismo attribuito a messaggi e loghi presenti su maglie e bandiere, parlano di inclusione, integrazione, fratellanza, fair play, trasparenza, dialogo, confronto.
Raramente, tali concetti, sono stati identificabili durante questo Mondiale. Lo stupore che ha raccolto a livello generale il comportamento della tifoseria e della compagine nipponica, esponenti di un’educazione civica unica e quasi fuori dal tempo, sminuisce a simpatici quegli atteggiamenti che dovrebbero essere invece alla base del vivere collettivo.
Le immagini sgradevoli che il torneo ha offerto formano un mazzo ricco di episodi e povero di moralità. Pescando ad occhi chiusi la sensazione rimane la medesima. Questo è il prezzo da pagare, la penitenza da subire per potersi concedere la possibilità di accedere al divertimento prodotto dal giocattolo calcio.
Il canto sommesso e costretto dei giocatori iraniani, la mano sulla bocca dei giocatori tedeschi, l’arbitro che richiama capitan Neuer a togliersi la fascia arcobaleno, gli spettatori invitati ad uscire dallo stadio per abbigliamento non consono ai dettami dell’emiro, la vestizione di Messi. La politica del calcio ha chinato la testa davanti a potenze superiori e, nel momento in cui l’ha rialzata per fare la voce grossa con i più deboli, l’ha girata dall’altra parte per un grottesco quieto vivere.
La vittoria argentina ha letteralmente fatto smobilitare una nazione verso le strade delle città, per vivere una gioia collettiva emozionante e viscerale. Le immagini delle piazze di Buenos Aires hanno fatto dire a molti che tutto ciò non può rappresentare solo un gioco, che tutto questo non può essere solo calcio. Appunto.
Se il sentimento di piacere, soddisfazione, simpatia per queste manifestazioni è sincero allora non si può rimanere indifferenti, ma per davvero, alle bolle malsane (non dimentichiamo la piaga razzista) che sistematicamente appaiono sulla superficie del pianeta calcio.
Quanto il campo ha raccontato di questo Mondiale è stato vivisezionato fino al singolo passaggio della singola partita. Tatticamente non si sono viste rivoluzioni, neanche scambiandole per miraggi nel deserto. Le squadre più piacevoli da vedere come collettivo sono state soprattutto quelle con buona dose di atletismo, velocità di esecuzione e spirito propositivo. Elementi spesso evidenti nelle cosiddette outsider, dove la fame e la voglia di emergere sono il pane quotidiano. È stato il Mondiale dove tante storiche scuole calcistiche hanno marcato visita, non offrendo nulla di trascendentale che permettesse di esaltarne i connotati classici. L’Italia? Non si è presa neanche il disturbo del viaggio.
È stato il torneo di splendidi gesti tecnici individuali, dove la qualità e il talento hanno fatto la differenza e in alcuni casi hanno portato a identificare la squadra con il singolo fuoriclasse. La finale ne è stato esempio lampante. La folta schiera di giovanissimi talenti, affacciatasi per la prima volta al palcoscenico planetario ha mostrato un livello di bravura, maturità e tranquillità nel gestire le pressioni che ha avuto del disarmante, facendo intuire anche margini di miglioramento esponenziali.
Continua ad esserci un cronico equivoco nella gestione politica della classe arbitrale. Al Mondiale devono andare i più bravi in senso assoluto. Se nei trenta migliori direttori di gara al mondo ci sono solo europei e qualche sudamericano, questi devono essere tutti convocati, perché questi hanno realmente la competenza, acquisita nei campionati più impegnativi, per gestire tensioni, ambienti e personalità ingombranti.
Citazione finale per la nazionale del paese ospitante: inadeguata. Squadra da cui non c’era tanto da attendersi. Le aspettative e gli investimenti nel progetto sono stati però molto più alti rispetto ad esempio alla nazionale statunitense del ‘94. Fu quello il primo caso, nel calcio globale, di rappresentativa di un paese ospitante privo di un radicato albo d’oro di competizioni all’interno dei confini nazionali.
Fra quattro anni, dopo oltre trenta, si ritornerà proprio lì, nel continente Nord Americano, dove due rigori furono sbagliati clamorosamente: Roberto Baggio in finale e Diana Ross nella cerimonia inaugurale.
Nella patria del capitalismo e dello spirito liberale non è immaginabile ipotizzare restrizioni sui diritti d’espressione. Potrebbe essere un Mondiale rivelatore. Il calcio del prossimo futuro, forse, potrebbe trovare, questa volta al momento giusto, una nuova terra promessa.
fonte foto copertina: Twitter @FIFAWorldCup