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Lezioni Finali

Inzaghi Mourinho Italiano

Con la finale di Istanbul si conclude, purtroppo a bocca amaramente asciutta, il trittico di partite che aveva celebrato il ritorno, contemporaneo in tutte le competizioni, delle squadre italiane nell’ultimo appuntamento europeo stagionale.

Questa contestualità ha creato un naturale paragone con la prima metà degli anni Novanta, quando l’attrattività del campionato italiano portava campioni su campioni a vestire le maglie della Serie A. Fu naturale raggiungere una supremazia nelle coppe europee, con la conquista di finali e trofei a ripetizione. All’epoca aveva senso parlare di logica conseguenza, essendo quello italiano il movimento europeo di riferimento. Dopo trent’anni le cose sono molto diverse.

lukaku pellegrini biraghi
fonte foto: Twitter @CB_Ignoranza

Il calcio non è una scienza esatta. Le società si affidano però a competenze tra le più inimmaginabili per limare all’infinitesimo la percentuale d’errore che le separa dalla garanzia di ottenere il successo. Il calcio di oggi è un insieme di speranze programmatiche, basate su una serie di eventi simulati, provati e ripetuti all’infinito, dove l’anomalia rimane però determinate. La sintesi perfetta del concetto è nella frase detta da Pep Guardiola al termine della finale contro l’Inter: “Questa competizione è una moneta”. Il catalano ha più volte espresso, con grande sincerità e consapevolezza, come nel calcio d’altissimo livello la parola memoria faccia rima solo con vittoria. Tutto il resto, anche se esteticamente meraviglioso e fondamentale per l’evoluzione del gioco, conta meno e spesso viene rapidamente dimenticato.

Guardando le tre finaliste italiane, a conti fatti e per come si sono svolti i tre incontri, quella che è stata più vicina a vincere il trofeo è stata la Roma. Non ha perso sul campo e ha ceduto al Siviglia solo dagli undici metri. Col senno di poi, osservando dall’esterno, rimane il dubbio sull’ordine e sui nomi dei rigoristi scelti. El Sharaawy, Belotti, Wjanaldum, Smalling, Zalewski e Bove apparivano opzioni forse più allettanti, visto il proprio bagaglio tecnico. Per quanto accaduto in questa stagione a questa rosa, non ci fosse stato Mourinho, i giallorossi non sarebbero mai riusciti ad arrivare in finale. E’ stato nuovamente lui il plus, l’elemento di differenza, l’anomalia. L’arrivo di Dybala ha aiutato, ma fino ad un certo punto. L’argentino è stato condizionato, come purtroppo altri punti cardine della formazione tipo, da importanti problemi fisici senza i quali, probabilmente, la qualificazione in Champions sarebbe arrivata tramite il campionato.

Una squadra allenata dallo Special One ambisce a centrare importanti obiettivi stagionali. Il portoghese c’è quasi riuscito avendo a disposizione una balestra, quando sarebbe stata necessaria una carabina di precisione. Ascoltando le dichiarazioni post gara di Budapest, e focalizzandosi solo sulle, più o meno velate, richieste alla proprietà, si nota come il tempo passi anche per Mou, il quale chiede per la prossima stagione una rimodulazione sostanziale del proprio ruolo (molto simili le parole di Allegri a Udine dopo l’ultima di campionato, ndr).

Per tanto tempo si è sentito parlare di evoluzione del ruolo dell’allenatore, di manager all’inglese, scomodando lo stile Ferguson. In Italia questa cosa, attualmente, non è applicabile. Il contesto tattico è più esasperato, rafforza le conoscenze degli allenatori nostrani e di quelli stranieri che arrivano in Italia, ma non permette di fare altro, se non rischiando di finire le energie mentali, sentendosi spremuti e svuotati. Spalletti l’ha capito, come anche Allegri, e appunto lo stesso Mourinho.

Dopo Sir Alex nessun manager di radice anglosassone ha più vinto il titolo in patria. Tutti i giocatori che arrivano in Premier sono concordi su quanto sia difficile giocare quel torneo per la velocità, il ritmo e la qualità tecnica espressa. L’allenatore straniero, di estrazione latina e spesso di formazione italiana, trova meno difficoltà a raggiungere il successo in Inghilterra. I dati suggeriscono come il ritmo gestionale nei club d’oltremanica sia impostato ad una velocità molto più bassa rispetto a quella dei club della Serie A, tanto che le tecniche organizzative più innovative per la Premier sono state importate da allenatori italiani.

Ultimamente il nostro campionato riesce, in poche piazze, forse per reazione alle limitate risorse o per improvvisi lampi di lucidità di dirigenti avveduti, a sviluppare interessanti laboratori in cui agli allenatori viene offerto il tempo per plasmare il materiale umano a propria disposizione, realizzando così le proprie visioni tattiche. Quest’anno a Firenze è successo così. La sinergia tra Vincenzo Italiano e la dirigenza viola, capitanata dal presidente Commisso, ha permesso alla squadra toscana di raggiungere la finale di Conference League, trentatrè anni dopo la doppia sfida con la Juventus in Coppa Uefa.

La terza competizione europea, creata un paio di stagioni fa, non ha niente da spartire con la vecchia Coppa delle Coppe, alzata per l’ultima volta nel ’99 da Alessandro Nesta in qualità di capitano della Lazio di Cragnotti.

Questa nuova creazione della Uefa non ha una reale logica sportiva, se non quella di rappresentare una scialuppa di salvataggio per nobili decadute in patria o società inciampate nei primi metri delle proprie stagioni internazionali. Tutte le federazioni europee (trentaquattro, ndr) devono essere rappresentate in qualche maniera. A queste si aggiungono alcune delle squadre che non hanno superato il primo girone di Europa League. I principali campionati europei, infine, non sono rappresentati da squadre che hanno vinto una competizione nazionale nella stagione precedente ma da chi è arrivato ben lontano dalla vetta. Solitamente chi conclude il campionato in posizioni simili ha fallito gli obiettivi stagionali o è una squadra in costruzione.

Dumfries
fonte foto: Twitter @Gazzetta_it

La Fiorentina è stato un ottimo esempio della seconda casistica. Il palcoscenico internazionale è stato il romanzo di formazione attraverso cui i gigliati hanno preso fiducia nella propria filosofia di gioco. Testando le proprie qualità, crescendo durante tutta l’annata, non senza qualche sbandata pericolosa nei vari turni di coppa, fino alla finale conquistata all’ultimo minuto. La sfida con il West Ham è stata la perfetta sintesi di pregi e difetti dei viola. Grande tecnica, ottime idee, concentrazione discontinua, difficoltà ad uscire dai dettami tattici impostati. Il gol finale, subito per eccessiva sicurezza nei movimenti di reparto, svela l’inesperienza nel gestire momenti del genere in partite del genere. Le dichiarazioni del presidente Commisso, al rientro da Praga, mostrano la grande intelligenza su cui è cresciuto il rapporto con il proprio allenatore. Difeso senza proclami eclatanti ma con la dirigenza presente costantemente al suo fianco nei momenti difficili della stagione. La critica ai tifosi è un messaggio da non farsi sfuggire, per comprendere come a Firenze ci sia volontà di proseguire un percorso di crescita, in cui c’è bisogno che tutti remino nella medesima direzione.

L’atto conclusivo della Champions League ha dato il risultato previsto, vittoria del City e Guardiola che ottiene il Treble anche lontano da Barcellona. Il finale del film della partita, se non dell’intero torneo, può essere apparso scontato, con i Citizens nel ruolo dell’assassino, che tutti avevano immaginato fin dalla prima scena. Grandi complimenti all’Inter per aver reso molto avvincente la trama del match, assolutamente inattesa per come si è sviluppata. Districandosi davanti a molteplici sliding doors, l’incontro ha avuto ripetute occasioni per prendere una piega molto differente a quanto immaginato. In Turchia abbiamo visto probabilmente una delle peggiori versioni dell’incredibile macchina da gioco che è questo City, lontanissima sbiadita copia di quella ammirata nella semifinale di ritorno con il Real Madrid detentore.

Era difficile prevedere un Haaland talmente abulico e avulso dal gioco. Un reparto difensivo troppo spesso incerto, aggrappato alle spalle dell’eccellente Stones e con un Ederson tanto decisivo quanto cardiopalmico negli interventi, fino all’ultimo secondo. In mezzo al campo, per De Bruyne e compagni, le cose sono apparse da subito complicate, come confermato da Guardiola nel post partita, migliorando solo con l’ingresso del folletto Foden proprio al posto dello sfortunato belga. Da qui in poi inizia il lungo elenco dei meriti dell’Inter. I ragazzi di Simone Inzaghi hanno interpretato l’incontro con attenzione, carisma e volontà. A dei livelli mai raggiunti prima quest’anno. Impossibile non eleggere Acerbi a simbolo di quest’audacia, che ti spinge a tentare di giocartela, con intelligenza e qualità tattica.

Manchester City Champions League
fonte foto: Twitter @ManCityFra

Questa sicurezza si trasmette al resto della squadra che gagliardamente tiene testa al colosso inglese. Senza fare barricate, senza ragionare di cortomuso, senza mettere pulmann davanti alla porta. Sarà difficile cancellare dalla memoria i se e i chissà, ripensando alla notte nefasta della LuLa (Lukaku-Lautaro). Gli attaccanti nerazzurri, BigRom (Lukaku, ndr) soprattutto, sono destinati a portare il fardello più pesante, quello del rimpianto. Aver messo Pep (Guardiola, ndr) letteralmente in ginocchio dalla paura è qualcosa di più di aver impensierito il City. Significa aver certificato il merito, aver meritato a pieno titolo di essere lì, in campo a giocarsi il trono d’Europa. Non per fallimenti altrui o qualificazioni più agevoli ma per solidità di struttura. Una dirigenza esperta, sempre pronta a schermare la squadra da interferenze esterne e dialettiche aride sull’operato dell’allenatore.

Guardiola
fonte foto: Twitter @Matthewjumped

Simone Inzaghi esce molto cambiato dal viaggio europeo di questa stagione. Messo in discussione dalla tifoseria e dagli addetti ai lavori, più che da Marotta e Zanetti, ha avuto l’intelligenza di alimentarsi delle critiche per andare oltre la propria comfort zone caratteriale. Venire buttato in acqua senza salvagente ti costringe a muoverti per galleggiare. Essere spalle al muro ti porta a cercare nuove soluzioni, sfruttando la parete come appoggio emotivo per rilanciarti in altre direzioni. L’errore fatale, quello da evitare assolutamente, è credere che il noviziato di quest’anno sia già scontato per il prossimo anno. Ciò che si è appreso in questa stagione potrà essere utile in futuro ma probabilmente dovrà essere contestualizzato al nuovo momento. Perché il calcio è sempre lo stesso ma non è mai uguale, Come una moneta in aria, prossima a dare un nuovo esito, forse imprevisto, al termine della sua caduta.

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