Lettera d’accusa alla mia squadra del cuore – Seconda puntata
Nel marasma generale la figura di Max Allegri è quella con minori colpe. Sicuramente non è innocente e certamente il suo operato non è stato all’altezza. Arrivato alla Juve nel 2014, preso in fretta e furia dopo l’addio di Antonio Conte, quasi come una soluzione di ripiego, dopo un quinquennio viene messo alla porta con titoli vari e due finali di Champions raggiunte. Richiamato in società due anni dopo, quasi come unica soluzione per risolvere le criticità di spogliatoio, con una prospettiva di lungo termine per sviluppare una figura manageriale alla Ferguson o Wenger.
“Acciughina” (Allegri, ndr) ha fatto notare immediatamente come la squadra peccasse gravemente di mentalità. Indizio evidente che il progetto ricostruzione sarebbe stato difficile da realizzare fu il suo labiale nel finale della prima di campionato dello scorso anno a Udine, ( “…questi qua non hanno ancora capito che giocano nella Juve”).
Sempre coerente con il proprio modo di essere. In termini di dialettica ci ha messo sempre la faccia, rispettando in ogni contesto lo spirito aziendalista. In questo molto simile ad Ancelotti.
In alcuni momenti di quest’ultima stagione è stato letteralmente lasciato da solo a rappresentare la società, nel gestire tutte le critiche, non solo quelle legate a questioni di tattica, come ad esempio l’ infortunio Pogba. E’ risalito dal momento più buio, appena dopo la prima penalizzazione e nel mentre dell’uscita dai gironi della Champions, riuscendo a far fruttare nuovamente l’esperienza e il famoso “cortomuso”. Attorno alla fine d’aprile, la stagione, sul campo, era stata raddrizzata con l’avventura in Europa ancora in essere e il raggiungimento, seppur a distanza siderale dal Napoli, del secondo posto in campionato.
Nessuna lode, nessuno slancio di bel gioco, nessuna prestazione da ricordare. L’Allegri bis non è molto differente dal primo. Tatticamente le idee non sono cambiate negli anni. Perché avrebbe dovuto cambiare filosofia? Per di più in modo radicale, come osservato dai suoi detrattori. Prima del suo ritorno, la società bianconera ha avuto non una ma ben due occasioni per svoltare alla ricerca del bel gioco. La dirigenza non ci ha creduto, non è colpa di Allegri. Il metodo in cui Max ha gestito l’innesto in prima squadra dei giovani della Next Gen non è stato molto differente da quello che fu l’approccio con Dybala appena arrivato a Torino.
Il livornese ha sempre predicato attenzione su questo argomento, comprendendo come il sistema avesse fame di fagocitare rapidamente questi talenti. Risorse cresciute ottimamente nel progetto seconda squadra. Unica intuizione manageriale, insieme allo stadio di proprietà, con cui la Vecchia Signora ha provato negli ultimi anni ad allinearsi alle tendenze di molti settori giovanili europei.
La dirigenza juventina, ad inizio stagione, si è fatta vanto di aver messo a disposizione del mister grandi campioni, Di Maria e Pogba su tutti. Se una rosa è composta da grandi campioni, questi devono fare la differenza qualunque sia la direzione tecnica. Se non fanno la differenza significa che hanno disatteso le aspettative o non sono così determinanti. Da Mister Galtier (ora con qualche problemino con la giustizia, ndr), ultimo allenatore del PSG di Neymar, Messi e MBappè, gli sceicchi parigini hanno preteso cose rivoluzionarie o soltanto che mettesse in campo tutti i fenomeni acquistati?
La storia tra Juventus e Allegri vede in avvicinamento i titoli di coda, difficile che le rimanenti due stagioni di contratto verranno portate a termine interamente. Ritengo comunque il mister la personalità adeguata in questa fase iniziale di transizione dirigenziale (è questione di giorni l’annuncio di Giuntoli capo area sportiva) dove gradualmente bisogna ricostruire l’immagine bianconera, troppo spesso recentemente non considerata prima scelta da alcuni nomi forti del mercato giocatori internazionale. Un futuro costruito su basi economiche solide, capacità manageriale virtuosa e magari un pizzico di etica. Se vincere non è tutto, ma è l’unica cosa che conta, è tempo però di dare sapore e qualità al modo in cui si vince. Non soltanto in termini di tecnica e tattica.
fonte foto copertina: Twitter @@cmercatoweb